Non vestivamo alla marinara (di Carlo Anibaldi)


I miei ricordi marchigiani sono pallidi e assai confusi, direi inesistenti e allora posso dire che sono nato all’età di circa tre anni, a Bologna, ma con origini decisamente marchigiane.

Nei primi anni cinquanta Bologna era una città fiera, orgogliosa del suo recente passato, per non essersi mai piegata fino in fondo allo strapotere del nazifascismo e per l’alto tributo alle lotte per la Liberazione. Da quegli anni e per il trentennio a seguire, fu il ‘laboratorio’ del Comunismo al governo in Italia; un Comunismo dalla faccia ‘buona’, nient’affatto stalinista come oltre ‘cortina’, con risorse e progresso sociale per ogni classe di cittadini, siano essi contadini, operai, commercianti, impiegati, artigiani, professionisti o imprenditori. Studenti e casalinghe, ognuno aveva un posto di rispetto in questa città efficiente, ordinata, allegra ed accogliente. Mi considero fortunato per esser vissuto a Bologna in quel periodo, fino alla fine degli anni sessanta, un posto unico, un’isola nella Penisola.

Abitavamo subito fuori Porta Galliera, alla Bolognina, davanti alla grande chiesa del Sacro Cuore, con annessi complessi scolastici e Salesiani.  Io e mio fratello maggiore fummo subito iscritti al Gruppo scoutistico davanti casa, il glorioso Bologna VII°, dove per una decina di anni abbiamo compiuto la carriera che si addice agli assidui e agli entusiasti. L’A.S.C.I. (oggi A.G.E.S.C.I.) era un’associazione cattolica, come anche oggi, ma la nostra ‘indipendenza’ all’interno delle attività parrocchiali era davvero notevole, direi autogestita, come si addice ad una congrega di giovani ‘esploratori’. Le esplorazioni che imparavamo a fare non erano solo quelle del territorio (topografia, astronomia, sopravvivenza e campeggio), ma, direi soprattutto, erano curate in modo particolare le esplorazioni dell’animo umano, e dunque imparavamo di amicizia, solidarietà, lealtà, tolleranza e convivenza. A soli sette anni avevo già imparato, ad esempio, che l’uso della forza coi deboli e della condiscendenza con i forti era cosa abominevole, molto più riprovevole che infilarsi le dita nel naso. E molte altre cose che spesso i genitori non hanno tempo e cultura per insegnare ai figli.

A quel tempo avere uno o più figli in collegi cattolici era un simbolo di status sociale e mio padre, che è sempre stato un po’ affetto da deliri di grandezza, ci iscrisse al più blasonato dei collegi di Bologna in quel tempo e forse anche di oggi, il San Luigi, in Via D’Azeglio, gestito da secoli dai Padri Barnabiti. Fino quasi al nostro trasferimento a Roma, alla fine degli anni sessanta, frequentammo questo istituto, molto serio, dove gli insegnamenti barnabitici e scolastici erano indissolubilmente legati e scanditi da attività quotidiane da vero Seminario; dove l’ora di religione era la più temuta e dove l’insegnante di Matematica era un anziano  barnabita dalla faccia di pietra.  I miei ricordi degli anni del San Luigi non sono sereni, anzi, le foto di rito degli anni scolastici stanno lì a raccontare il contrario, ma a posteriori devo dire che forse devo qualcosa di importante ai Preti Barnabiti, una specie di imprinting di non facile definizione….e non facile nemmeno a scrollarsi di dosso quando, più avanti, si comprende che solo i valori laici consentono di vivere in maniera cosciente.

In definitiva ed a posteriori, posso dire che per me e mio fratello, gli anni bolognesi della formazione, insieme all’associazione scoutistica e al San Luigi, sono alla base della nostra impossibilità ad essere dei veri bastardi, ‘qualità’ che sarebbe invece stata indispensabile per farsi largo in un posto come l’Italia.  Siamo infatti solo onesti e ingenuamente convinti che solo il lavoro ben fatto possa darci tutto quanto ci serva nella vita, compresa la dignità.

Quegli anni del boom italiano videro la mia famiglia impegnata in nuovi progetti: mia sorella sposò il suo principale e mio padre allargò le sue ambizioni imprenditoriali di commerciante di carni da macello. Negli anni a venire fu chiaro che entrambi i progetti erano destinati a fallire. Negli anni a venire fu soprattutto chiaro che il boom di quegli anni fu per pochi, ma allora il presente era ‘promettente’ e se è sensato dire che ogni famiglia ha il suo momento magico, quello con le luci accese, ebbene per la mia famiglia d’origine questo è collocato fra il ’55 e il ’65.  Visto attraverso gli occhi di un bambino piuttosto introverso intorno ai dieci anni, il mondo appariva un buon posto dove stare; la fantasia assai fervida mi spingeva ad immaginare mondi lontani e situazioni avventurose. Io correvo sempre, con la mente e con il corpo, tanto da distruggere quantità industriali di scarpe, magliette e pantaloncini, ma intorno a me il mondo girava piano, rassicurante, indolente. Non succedeva mai che costruissero un supermercato nel campetto da pallone o che a qualcuno fosse usata violenza. I pomeriggi erano lunghi e le estati non finivano mai. Nonna mi preparava le merende e mamma mi ricuciva i pantaloncini. Nei rari momenti di quiete motoria leggevo Zanna Bianca, I Ragazzi della Via Pal o Il Visconte di Bragelonne. C’era musica alla radio e per tutta una sera la musica fu assai seria perché era morto il “Papa buono”. Fu forse la prima volta che vidi mia madre con una lacrima sul viso, ma ne seguirono altre.

Mum & Dad

In quegli anni ero certo che la morte fosse una cosa triste e inevitabile che riguardasse i parenti vecchi. A 10 anni i parenti sono sempre un po’ vecchi. Fra i compagni di giochi, i fratelli e il resto del mondo non c’erano così tante sfumature: noi e i vecchi. La morte di mio nonno materno mi impressionò molto perché mi costrinse a soffermarmi sul significato di alcune parole che la domenica in Chiesa ripetevo distrattamente a memoria da sempre: eternità, vita, morte, peccato, pentimento, colpa, resurrezione della carne (e qui ci coglievo dei nessi col commercio di mio padre), paradiso, inferno, purgatorio, preghiera. Ora vedevo mamma buttata sul lettone a piangere e il prete che la consolava e rassicurava facendo grande uso di quelle parole. Le mie deduzioni in quella triste circostanza portarono altre certezze: i preti in chiesa sono i padroni della morte e della vita, del paradiso e dell’inferno, del riso e del pianto di mamma. Sono dunque persone importanti con cui non bisogna scherzare troppo e men che meno contraddire.  Mio padre era nato nel bel mezzo della prima guerra mondiale e dunque la sua formazione e le sue idee, fortemente risentivano della formazione e delle idee di genitori e nonni che erano cresciuti nella seconda metà dell’ottocento. Devo dunque perdonargli idee bizzarre come l’aver riservato ai figli maschi il ciclo completo di studi e parecchie altre che solo il tempo ha lavato dal rancore connesso alla incomprensione. Mia madre era una donna cui la guerra ha strappato i sogni di gioventù. E dunque questa Rossella O’Hara con le maniche rimboccate era la donna che distrattamente si occupava della crescita dei suoi figli. La sua rabbia e delusione era cosa così evidente agli occhi di un figlio attento, che mi fu per lungo tempo impossibile scrollarmi di dosso il mantello del Cavaliere Salvatore di donne inermi insultate dalla vita. Condizione questa che certamente influenzò le mie prime scelte amorose. Ha fatto tutto quanto la sua indole le ha consentito di fare e allora non ho nulla da rimproverarle.

Gli anni cinquanta volgevano al termine e allora basta col ghiaccio da portare in casa per conservare i cibi, basta con la televisione al bar il sabato sera, basta biciclette e lambrette. Basta latte sfuso e spaghetti a etti. Avevamo come oramai tantissimi italiani un frigorifero, un apparecchio televisivo tutto per noi e l’automobilina Fiat per le gite fuori porta, e non dovevamo più invidiare un po’ lo zio che veniva di tanto in tanto con la sua Balilla dalle Marche a trovarci. Una delle prime sere che avevamo l’apparecchio telefonico in casa, mio padre lo usò in ora tarda per chiedere alle signorine dei telefoni chi aveva vinto il Festival di San Remo: Tony Dallara e Renato Rascel con Romantica, era il 1960.

Alla fine degli anni cinquanta l’affitto di casa incideva per 1/6 dello stipendio e potevi acquistare uno scooter con meno della metà della paga di un operaio e allora furono in molti a pensare che risparmiando sulle spese voluttuarie, che del resto erano ancora assai lontane dalla mentalità comune, si potevano accantonare abbastanza soldi per acquistare un appartamento. E così fu per milioni di italiani che guardavano fiduciosi al futuro.

In quegli anni, sui muri dei magazzini di periferia dove andavamo a giocare, c’erano grandi scritte nere su fondo bianco che non capivamo, in particolare una che ammoniva: “La stasi debilita, l’azione rinfranca”, figuriamoci, non stavamo mai fermi un momento! E quell’altra: “Vincere e Vinceremo”, tutte sempre firmate con una M corsivo maiuscolo. Eravamo figli di ferrovieri, piccoli commercianti, impiegati e operai, tanti operai e decisamente non vestivamo alla marinara. Molti di noi avevano indosso pantaloncini e magliette dei fratelli maggiori e poi ogni venerdì veniva il mercato americano e la mamma ci comperava strane camicie con i bottoncini sul colletto, sempre troppo grandi, buone anche per gli anni a venire. Il Caffè sotto casa aveva una saletta al piano superiore con un grande televisore e ogni sabato sera eravamo tutti lì a vedere il Musichiere, ma avremmo visto qualsiasi cosa, purché fosse venuta da quella scatola magica. La domenica mattina era sempre un po’ speciale: c’erano le attività parrocchiali, che per noi bambini avevano il significato di rendere ufficiale la nostra attitudine a giocare, sudare e sporcarci. E poi il passaggio con papà alla pasticceria per i bignè, talvolta rovinato da una precedente fermata dal barbiere, che ci faceva sfumature incredibilmente alte, così duravano di più.

Gli anni della scuola non erano facili per noi: grembiulini neri, inverni lunghi, macchie d’inchiostro sulle dita, tanti compiti a casa e tante lacrime. Per i nostri genitori la scuola era la sola possibilità di offrirci un futuro migliore del loro presente, e allora niente sconti, serietà e senso del dovere erano le parole d’ordine, insomma una specie di “missione di famiglia” e allora per essere asini ci voleva davvero un fegato grosso così. Infatti a quel tempo gli asinelli si potevano contare sulla punta delle dita di una mano.

Forse non eravamo proprio felici, ma nessuno ci aveva mai detto che la felicità fosse cosa di questo mondo, del nostro mondo e dunque come si fa ad essere davvero infelici se non la conosci, la felicità?

Carlo Anibaldi

Comments

  1. bellissima la tua autobiografia Carlo, raffinatissimo e piacevole da leggere…aspetto con entusiasmo il seguito!

  2. Maria Longo says:

    Magnifico Carlo !…:)

  3. cartapierangela says:

    Bella davvero!

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